Investire in Africa: Kenya tra i paesi “interessanti” ma l’Italia è ancora indietro
MALINDI– “Restare europei ma guardare all’Africa per risolvere la crisi. Questa l’idea di Strasburgo che ha confermato la bontà di uno studio presentato lo scorso febbraio dall’Istituto per la Politica Internazionale conto del Ministero degli Esteri italiano“. Del rapporto parla un articolo in primo piano sul portale di informazione MalindiKenya. Eccone di seguito il testo.
“Il rapporto differenziato ha inserito il Kenya nei primi otto Paesi che, per crescita futura, caratteristiche istituzionali e politiche, dinamiche demografiche, amento della classe media, sono da considerare obiettivi di particolare interesse per l’Italia. Il Kenya è nella fascia “A” insieme ad Angola, Etiopia, Ghana, Mozambico, Nigeria, Senegal e Sud Africa. Sono considerati “comunque attraenti” Camerun, Uganda, Zambia, mentre in terza fascia, quella degli Stati “relativamente stabili” sono stati inseriti Sud Africa, Lesotho, Botswana, Namibia, Gabon, Benin e Ghana. Da evitare, ma non è una novità, Somalia, Sudan, Sud Sudan e Repubblica Democratica del Congo.
L’Africa da sempre costituisce un’attrattiva perché è vicina e quindi può essere un partner economico quasi naturale, ma anche perché molti Paesi africani hanno ritmi di sviluppo elevati, tanto che nei prossimi anni saranno probabilmente quelli a maggiore tasso di crescita del pianeta. Per molte aziende e anche investitori privati si tratta di un’opportunità da cogliere.
Il particolareggiato rapporto dell’Ispi, nelle sue 150 pagine ricorda come partire dalla metà degli anni Novanta, in particolare il Kenya e la regione Subsahariana hanno avuto tassi medi di crescita economica sempre maggiori, un po’ inferiori a quelli dei cosiddetti Bric (Brasile, Russia, India, Cina) ma dal 2000 sempre superiori a quelli dei Paesi avanzati. E nel 2012 ha superato anche i Bric (4,2% rispetto al 3,8%): secondo il Fondo monetario internazionale, la crescita è stata del 5% nel 2013 e sarà del 6% quest’anno. Un boom in parte fondato sullo sfruttamento delle risorse naturali, ma non solo: nel periodo 1995-2010, 8 dei 12 Paesi che nella regione sono cresciuti di più non erano ricchi di materie prime. L’inflazione, sotto al 10%, è in calo dal 2000 e uno dei maggiori problemi dei decenni scorsi, il debito verso l’estero, in vent’anni si è ridotto da una quota attorno al 65% all’attuale 27%. Soprattutto, sono migliorate le condizioni di vita. Tra il 1990 e il 2011 la spesa per consumi è aumentata di cinque volte. Sessanta persone su cento hanno oggi un telefono cellulare e quasi il 20% della popolazione ha qualche forma di collegamento Internet. La mortalità infantile (sotto i cinque anni) è scesa da 180 morti ogni mille nati a poco più di cento, ancora troppo rispetto ai 54 della media mondiale, ma in netta diminuzione. La popolazione sotto il livello di povertà estrema, meno di 1,25 dollari al giorno, è calata dal 60% di inizio anni Novanta al 48% di oggi. L’istruzione e la sanità migliorano, anche se troppo lentamente. L’urbanizzazione (un fattore potente di crescita e di miglioramento sociale e politico) è ancora sotto al 40% della popolazione totale ma in crescita netta.
Il mondo si è accorto del cambiamento e l’ha accompagnato. Gli investimenti diretti dall’estero nell’Africa subsahariana erano lo 0,6% di quelli mondiali nel 1990, negli ultimi anni variano tra il 2,5 e il 3,2%. Vent’anni fa, su cento dollari che arrivavano nella regione, cinque erano di investimenti, 95 di aiuti; oggi il rapporto è quasi di uno a uno. L’Africa Subsahariana e il Kenya in particolare sono insomma in movimento.
Chiaro, stiamo parlando di economia e investimenti, conosciamo i limiti di queste Nazioni: povertà da superare, educazione da incentivare, sanità da migliorare, infrastrutture da costruire. E quadro politico spesso problematico, senza contare le frange di estremismo. Ma sempre più ci si accorge che in questo caso il problema è mondiale.
L’Italia è però in ritardo netto rispetto ad altri Paesi europei, non solo ai maggiori, ma anche ad esempio rispetto ad Olanda e Belgio e a realtà meno abituate a guardare all’estero, come la Turchia. Gli investimenti del Governo sono pochi, gli interscambi commerciali minori, le rappresentanze diplomatiche e culturali ridotte all’osso.
Il rapporto propone un programma italiano di investimenti pubblico-privati in progetti africani; il rafforzamento delle ambasciate e degli uffici Ice nella regione; rapporti istituzionali più profondi e costanti con i singoli Paesi e con l’Unione Africana; campagne di informazione sull’economia italiana; possibilità di esportazione di intere filiere di produzione italiana; sostegno finanziario, cooperazione in fatto di migrazione; scambi culturali; la valorizzazione della Conferenza Italia-Africa che il ministero degli Esteri organizzerà il prossimo autunno e dovrebbe diventare periodica (la Francia ne ha una dal 1973)”. (aise)
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